venerdì 12 dicembre 2008

"ULTIMO GIORNO, ULTIMA ORA, ULTIMO MINUTO": UN CONVEGNO RIUSCITO



Mercoledì pomeriggio si è tenuto presso la Sala dell'Imbarcadero 2 del Castello Estense il Convegno avente ad oggetto la presentazione del libro "Ultimo giorno, ultima ora, ultimo minuto". Allego la mia relazione introduttiva. 

Cari amici,

tocca a me questa sera fare gli onori di casa, visto che il Convegno che si tiene in questa sala prestigiosa del Castello Estense è stato promosso dal Gruppo Consigliare Provinciale Misto di cui fa parte anche La Destra nella mia persona. Un ringraziamento particolare va a questo proposito al mio capogruppo, Rino Conventi, per lo spirito di collaborazione manifestato sin dal primo istante nei miei e nei nostri confronti. Ringrazio naturalmente i nostri graditissimi ospiti, Pino De Rosa e Rodolfo Graziadei, per la disponibilità che ci hanno dimostrato, accogliendo il nostro invito, così come voglio porgere un ringraziamento sincero al Segretario provinciale Alberto Ferretti, promotore dell’iniziativa, ai dirigenti di partito, agli iscritti, ai simpatizzanti e a tutti quelli che a vario titolo hanno voluto quest’oggi essere presenti.

Credo si tratti veramente di un’occasione più unica che rara, quella di avere qui in mezzo a noi Rodolfo Graziadei, un protagonista ferrarese di quei giorni terribili a cavallo del 25 aprile 1945 che la nostra città visse in un’attesa lacerante, fatta di timori e di speranze, di gioie e di dolori, di nobili atti di eroismo come di piccoli e squallidi episodi di viltà. Un testimone vivente di quel crogiuolo di emozioni, sentimenti, incertezze, scelte definitive e irreversibili che bruciarono il più delle volte la gioventù di tanti ventenni che, come Rodolfo, imboccarono forse la strada più difficile, sapendo che per questo avrebbero pagato un prezzo molto salato. Ci fu chi quel prezzo lo pagò con la propria vita e chi, come Graziadei, con la prigionia e con l’ esilio più amaro, durato anni.

Credo che si tratti di un’occasione unica anche perché ci dà la possibilità di ragionare di quei fatti così lontani per il tempo che è trascorso da allora ma così vicini per le passioni che sanno ancora suscitare, prescindendo una volta tanto dagli stereotipi ideologici con cui per troppi decenni ci si è mossi. Mi riferisco in particolare alle vecchie categorie dell’antifascismo e del neofascismo, sulle quali molti hanno specularmente costruito le loro carriere politiche e che oggi appaiono contenitori vuoti, incapaci di spiegare, se non in modo marginale, scelte come quelle, per esempio, che fece Rodolfo. 

E invece ancora oggi, ad oltre sessant’anni dalla fine di quell’esperienza, continua per esempio a far comodo a qualcuno rovesciare nella categoria del fascismo tutti gli orrori del nostro secolo: le guerre, le dittature, il totalitarismo, il razzismo, le violenze, lo sciovinismo e ogni altro genere di prevaricazione. Continua a far comodo condensare su quell’ evento politico tutte le nefandezze del Novecento e poi concluderne che liberandoci dal fascismo ci siamo liberati da quei mali, che invece, come ben sappiamo, permeano in un abbraccio drammatico e spesso mortale i nostri giorni. Continua a far comodo unificare sotto l’ombrello del fascismo ogni regime repressivo del secolo scorso. 

Certo, sarebbe comodo usare ancora il fascismo come ricettacolo del Male. Ma troppe domande resterebbero senza risposta. Perché mai, ad esempio, quell’orrore ebbe un consenso così vasto, intenso e perfino duraturo? Perché mai molte delle migliori intelligenze del secolo furono tentate, inebriate o irretite dal fascismo? Perché mai stati e statisti, anche di provata ispirazione democratica, pontefici e chiese, grandi imprenditori, considerarono con favore il fascismo e il suo capo? Perché mai molte eredità istituzionali, legislative e sociali del fascismo furono riprese e continuate anche nella democrazia del dopoguerra? Perché mai il fascismo riuscì ad integrare le masse nello stato unitario e nella nazione moderna, suscitando come mai in precedenza un forte senso comunitario e patriottico? Perché mai il fascismo non cadde per proprio disfacimento o per intrinseco fallimento, come è accaduto al comunismo, ma solo a seguito di una guerra perduta? Bisognerebbe rispondere a queste domande prima di riassumere nel fascismo il male del Novecento. 

Noi oggi non abbiamo qui né il tempo, né probabilmente la capacità di rispondere a queste domande, alle quali peraltro storici non sospettati di simpatie per il regime, ma di grande spessore culturale e umano, come Renzo De Felice, hanno già dato in un recente passato risposte molto convincenti. 

La questione da porre problematicamente però a mio avviso c’è, ed è questa: quali sono i motivi che hanno determinato il consenso e l’attrazione del fascismo o l’immagine di “positività” che riuscì a diffondere? E questi motivi sono separabili, distinguibili dall’immagine negativa che ha prevalso al termine del suo percorso? In altri termini: che nesso c’è tra la modernizzazione, le opere pubbliche, l’integrazione comunitaria, l’idealismo di massa, la tutela sociale, lo Stato efficace da una parte e dall’altra la violenza squadrista, la persecuzione del dissenso, la militarizzazione e il bellicismo, la volontà di potenza, la retorica e l’autoritarismo, fino alle leggi razziali, all’antisemitismo e all’orrore della Shoah? C’è un nesso indistruttibile tra queste cose, o si può pensare alle une senza le altre, e viceversa?

 Io sono fermamente convinto che con uno sforzo di grande onestà intellettuale  si possa dire che sì, si può pensare alle une senza le altre. E non perché non sia sacrosanto condannare i drammatici errori di cui il regime si rese responsabile. Ma perché ritengo che non sia possibile gettare il bambino con l’acqua sporca. Fuor di metafora, per esempio, gettare con il fascismo l’idea di patria, solo perché ad essa il fascismo si avvinse, così come non è possibile espellere con il fascismo l’idea di comunità e la cruciale importanza del legame sociale. E analoga riflessione va fatta per alcuni principi come autorità, educazione, dovere, obbedienza, che hanno assunto una valenza negativa perché automaticamente associati all’autoritarismo fascista, benché siano alla base di ogni etica e di ogni buona organizzazione civica. Si tratta invece di salvarli da quel vincolo nuziale con il fascismo, considerando la loro validità anche in una società libera e moderna. 

Io credo, - ma poi ce lo dirà lui, se vorrà - che proprio in nome di quei principi che ho appena ricordato - e non d’altro -  Rodolfo Graziadei abbia speso gli anni migliori della sua giovinezza. 

E d’altra parte sappiamo bene che la guerra civile tra antifascisti e fascisti non fu, se non in minima parte, la guerra tra difensori della libertà e sostenitori della dittatura. Le forze più cospicue della Resistenza furono i comunisti e gli azionisti di Giustizia e Libertà, non certo i partigiani cattolici, monarchici e liberali, che pure vi furono e combatterono il nazi-fascismo nel nome della libertà e della democrazia. La stragrande maggioranza dei comunisti combatteva invece nel nome di Marx, Lenin e Stalin, in vista della dittatura del proletariato e riteneva legittimo l’uso della violenza rivoluzionaria. Ma anche tra gli azionisti dominava l’idea di un “nuova dittatura rivoluzionaria”, come la chiamava Silvio Trentin, di un nuovo pedagogismo di stato per educare le masse, come sostenevano i loro programmi, di una democrazia senza partiti, come la disegnava Duccio Garimberti, e di un anticapitalismo radicale, come quello disegnato da La Malfa e Ragghianti, che configuravano una scelta non propriamente omogenea alla democrazia liberale. 

E il fatto che il mondo sia più complicato di come una storiografia agiografica, compiacente e di parte ce lo ha sempre presentato, emerge in modo chiaro ed evidente dal libro che oggi qui presentiamo.

Il libro, che ho letto tutto d’un fiato, è pervaso dalla prima all’ultima pagina, grazie anche alla capacità d Pino De Rosa di catapultare il lettore nelle vicende di quei giorni quasi che lui stesso vi ci si trovasse immerso, di una pietas inattesa, che è un po’ il filo conduttore di tutta la vicenda. Sfogliando queste pagine, si vive con commozione, quasi in presa diretta, l’esperienza di una Ferrara stremata dalla guerra, con i suoi vicoli silenziosi nelle notti di coprifuoco. Si respira a pieni polmoni l’amore di Rodolfo per la sua terra, per la sua famiglia, per la sua fidanzata, Bruna, a cui lo lega una complicità fondata su di una profondità di sentimenti che non viene mai meno, neppure nei momenti più drammatici e disperati, quando la fine di un mondo sembrava coincidere con la fine della propria stessa esistenza. 

Si legge la ribellione morale dello stesso Rodolfo di fronte ad episodi di ingiustificata ferocia perpetrati da una parte come dall’altra, a cui assiste attonito e spesso impotente. Si coglie nel profondo il suo disorientamento di fronte alla consapevolezza di dover combattere contro altri italiani e non – come avrebbe voluto – contro le truppe degli “invasori” anglo-americani. 

Gli sguardi fugaci che scambia con un giovane prigioniero partigiano della sua età, in cui scorge l’angoscia e l’incertezza sulla sua sorte; o con il soldato britannico biondo che lo scorta verso la prigionia allontanando da lui, per una sorta di inconfessato rispetto,  la plebaglia che fino a pochi giorni prima plaudiva a quelli come lui e che ora, pronta a saltare sul carro del vincitore, gli vorrebbe sputare in faccia, accecata dall’odio e dal rancore. I tanti piccoli e grandi episodi di autentico cameratismo, che lo vedono protagonista di un’epopea tragica e grandiosa al tempo stesso, e che ne fanno una figura alta e nobile pur nella sua semplicità.   

Tutto questo fa di questo libro un’opera da leggere con grande interesse, nel ricordo di quello che è stato ma anche - e direi, soprattutto – nella speranza di un futuro migliore. Ed è proprio con lo sguardo rivolto al futuro che Rodolfo chiude il suo racconto, scrivendo: “sulla linea dell’orizzonte, il tramonto di una vita non è triste, confortato dalla certezza che quando la bicicletta resterà sul ciglio della strada perché non potrò più tornare a riprenderla, non sarà preda dei rovi ma troverà chi monterà in sella e continuerà a salire fino all’ultimo giorno, ultima ora, ultimo minuto di un’ascesa che culminerà con il riscatto di una fede capace di ridare a quest’Italia la svenduta dignità.” 

Vi ringrazio e cedo con piacere la parola a Pino De Rosa.

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