mercoledì 31 dicembre 2008
GLI AUGURI PIU' SINCERI DI UN FELICE 2009!
Porgo a tutti voi gli auguri più sinceri di un felice e sereno 2009. Non sarà un anno facile, inutile illudersi. Ma questo non ci impedirà di lottare per cambiare le cose, a partire da Ferrara e Provincia, con il coraggio e la caparbietà di sempre. Aiutateci a farlo, con l'amicizia e l'affetto che ci avete mostrato in questo anno e mezzo, da che è nato il Partito. Cercheremo di farlo crescere, consapevoli dell'importanza di esserci, per rappresentare un'alternativa credibile al magma putrescente in cui la partitocrazia malata di questi tristi tempi si sta dibattendo. Buon Anno!
mercoledì 24 dicembre 2008
BUON NATALE, BUONA DESTRA!
E soprattutto che sia un anno in cui ciascuno di noi, a cominciare dal partito che amiamo, possa ricevere le soddisfazioni che meritiamo.
Il prossimo anno, finalmente non bisestile…, lo dovremo caratterizzare nel segno dell’affermazione dei nostri sogni politici, dovremo impegnarci al massimo contro ogni tentativo di resistenza al cambiamento dei metodi della politica, sempre più lontana dai cittadini.
L’etica sparisce dalla società e dall’amministrazione dello Stato, delle regioni, degli enti locali; di più, sembra perdersi ogni traccia di capacità di indignazione. Noi no, abbiamo detto e dobbiamo continuare a dire.
Sia il Natale che precede l’anno dell’identità de La Destra, della sua riconoscibilità come movimento degli italiani, sia il 2009 l’anno della gioia per un partito che appena nato ha dovuto fare i conti con le prove più dure.
Ma non ci arrendiamo, siamo gente che non molla!
E il 24 gennaio ci abbracceremo a Napoli.
Buon Natale, buona Destra.
martedì 23 dicembre 2008
BUON NATALE!!!
venerdì 19 dicembre 2008
GLI ATTACCHI ALLA CHIESA E L'IPOCRISIA DI FINI
Parliamoci chiaro. Le leggi razziali sono state solo un pretesto. Con l'attacco a freddo di Gianfranco Fini alla Chiesa Cattolica il Presidente della Camera paga l'ennesimo debito (e non crediamo sarà l'ultimo) alla cultura neo-illuminista e paleo-massonica della City londinese, che con grande entusiasmo abbracciò qualche anno fa, quando iniziò a smantellare pezzo a pezzo la sua storia personale e con essa quella di un popolo e di una comunità che ha sempre avuto, nel Magistero della Chiesa e nella sua Dottrina Sociale, un imprescindibile punto di riferimento culturale, morale e identitario.
martedì 16 dicembre 2008
DALLA SCONFITTA ABRUZZESE UN FORTE MONITO: CAMBIARE O SCOMPARIRE
Abbiamo perso. E la sconfitta elettorale in Abruzzo è la cartina di tornasole di un Partito che, come è apparso chiaro in occasione del Comitato Centrale a cui ho partecipato una decina di giorni fa, non ha ancora deciso cosa fare da grande.
Quando La Destra venne al mondo, ormai un anno e mezzo fa, l’obiettivo era chiaro, o almeno a me così era apparso.
Il Partito non nasceva per stare alla destra di AN, ma per prendere il posto di AN, che per motivi legati essenzialmente ad una questione di poltrone, aveva svenduto l’anima e dunque non appariva più in grado di rappresentare credibilmente nella coalizione di Centrodestra quel patrimonio di valori e di ideali che permeano buona parte dell’elettorato moderato, ma che Berlusconi neppure sa dove stiano di casa.
Ecco, questo era il progetto originario de La Destra: fungere da elemento riequilibratore, diventare la nuova destra di governo in una coalizione alternativa alle Sinistre, portandovi idee, entusiasmo, coerenza, moralità. Interpretando in buona sostanza l’ anima critica del nuovo Esecutivo che di lì a breve – era nell’aria - avrebbe inevitabilmente mandato a casa la traballante navicella retta da Romano Prodi.
Quello che accadde poi è cronaca nota a tutti. Il voltafaccia del Cavaliere, il veto di Fini all’apparentamento, la lunga traversava in un deserto sterminato di cui non si intravede la fine. La legittima sensazione, vissuta da molti di noi, di essere stati traditi.
E così, un po’ per volta, il Partito ha cambiato faccia e con essa linea politica, cominciando ad assomigliare sempre più ad una destra anti-sistema, qualcosa di molto più simile, per intenderci, alla Fiamma Tricolore o a Forza Nuova, che non a quella Destra moderna e democratica che aveva l’ambizione di diventare e alla quale molti, anche per questo, si erano rivolti all’origine con curiosità e interesse.
Intrecciando poi pericolose alleanze più o meno sotterranee con elementi dell’estremismo radicale (l’ingresso di Tilgher nell’Esecutivo Politico nazionale è sintomatico in questo senso), che prima che portare voti e determinare consenso spaventano e preoccupano chi non è disposto, anche a destra, a svendere gli irrinunciabili valori della libertà e della democrazia sull’altare di improbabili e imbarazzanti derive neofasciste.
Oggi dunque il Partito si trova di fronte ad un bivio.
Da una parte, c’è la scelta dell’autoghettizzazione, assolutamente legittima, ma altrettanto sterile, in termini di prospettiva politica.
Dall’altra, quella di un movimento disposto a mettersi in gioco, a confrontarsi con il Pdl sul piano delle idee, competitivo sì, ma non pregiudizialmente chiuso al dialogo e al confronto, nella consapevolezza forte e chiara che il “nemico” sta sempre e comunque dall’altra parte, a sinistra.
Su questo si misurerà, di qui a breve, il futuro politico de La Destra e la sua capacità di attrarre consensi e suscitare speranze, piuttosto che di sfiorire nell’insignificanza di un orizzonte asfittico e senza sbocchi.
venerdì 12 dicembre 2008
"ULTIMO GIORNO, ULTIMA ORA, ULTIMO MINUTO": UN CONVEGNO RIUSCITO
Cari amici,
tocca a me questa sera fare gli onori di casa, visto che il Convegno che si tiene in questa sala prestigiosa del Castello Estense è stato promosso dal Gruppo Consigliare Provinciale Misto di cui fa parte anche La Destra nella mia persona. Un ringraziamento particolare va a questo proposito al mio capogruppo, Rino Conventi, per lo spirito di collaborazione manifestato sin dal primo istante nei miei e nei nostri confronti. Ringrazio naturalmente i nostri graditissimi ospiti, Pino De Rosa e Rodolfo Graziadei, per la disponibilità che ci hanno dimostrato, accogliendo il nostro invito, così come voglio porgere un ringraziamento sincero al Segretario provinciale Alberto Ferretti, promotore dell’iniziativa, ai dirigenti di partito, agli iscritti, ai simpatizzanti e a tutti quelli che a vario titolo hanno voluto quest’oggi essere presenti.
Credo si tratti veramente di un’occasione più unica che rara, quella di avere qui in mezzo a noi Rodolfo Graziadei, un protagonista ferrarese di quei giorni terribili a cavallo del 25 aprile 1945 che la nostra città visse in un’attesa lacerante, fatta di timori e di speranze, di gioie e di dolori, di nobili atti di eroismo come di piccoli e squallidi episodi di viltà. Un testimone vivente di quel crogiuolo di emozioni, sentimenti, incertezze, scelte definitive e irreversibili che bruciarono il più delle volte la gioventù di tanti ventenni che, come Rodolfo, imboccarono forse la strada più difficile, sapendo che per questo avrebbero pagato un prezzo molto salato. Ci fu chi quel prezzo lo pagò con la propria vita e chi, come Graziadei, con la prigionia e con l’ esilio più amaro, durato anni.
Credo che si tratti di un’occasione unica anche perché ci dà la possibilità di ragionare di quei fatti così lontani per il tempo che è trascorso da allora ma così vicini per le passioni che sanno ancora suscitare, prescindendo una volta tanto dagli stereotipi ideologici con cui per troppi decenni ci si è mossi. Mi riferisco in particolare alle vecchie categorie dell’antifascismo e del neofascismo, sulle quali molti hanno specularmente costruito le loro carriere politiche e che oggi appaiono contenitori vuoti, incapaci di spiegare, se non in modo marginale, scelte come quelle, per esempio, che fece Rodolfo.
E invece ancora oggi, ad oltre sessant’anni dalla fine di quell’esperienza, continua per esempio a far comodo a qualcuno rovesciare nella categoria del fascismo tutti gli orrori del nostro secolo: le guerre, le dittature, il totalitarismo, il razzismo, le violenze, lo sciovinismo e ogni altro genere di prevaricazione. Continua a far comodo condensare su quell’ evento politico tutte le nefandezze del Novecento e poi concluderne che liberandoci dal fascismo ci siamo liberati da quei mali, che invece, come ben sappiamo, permeano in un abbraccio drammatico e spesso mortale i nostri giorni. Continua a far comodo unificare sotto l’ombrello del fascismo ogni regime repressivo del secolo scorso.
Certo, sarebbe comodo usare ancora il fascismo come ricettacolo del Male. Ma troppe domande resterebbero senza risposta. Perché mai, ad esempio, quell’orrore ebbe un consenso così vasto, intenso e perfino duraturo? Perché mai molte delle migliori intelligenze del secolo furono tentate, inebriate o irretite dal fascismo? Perché mai stati e statisti, anche di provata ispirazione democratica, pontefici e chiese, grandi imprenditori, considerarono con favore il fascismo e il suo capo? Perché mai molte eredità istituzionali, legislative e sociali del fascismo furono riprese e continuate anche nella democrazia del dopoguerra? Perché mai il fascismo riuscì ad integrare le masse nello stato unitario e nella nazione moderna, suscitando come mai in precedenza un forte senso comunitario e patriottico? Perché mai il fascismo non cadde per proprio disfacimento o per intrinseco fallimento, come è accaduto al comunismo, ma solo a seguito di una guerra perduta? Bisognerebbe rispondere a queste domande prima di riassumere nel fascismo il male del Novecento.
Noi oggi non abbiamo qui né il tempo, né probabilmente la capacità di rispondere a queste domande, alle quali peraltro storici non sospettati di simpatie per il regime, ma di grande spessore culturale e umano, come Renzo De Felice, hanno già dato in un recente passato risposte molto convincenti.
La questione da porre problematicamente però a mio avviso c’è, ed è questa: quali sono i motivi che hanno determinato il consenso e l’attrazione del fascismo o l’immagine di “positività” che riuscì a diffondere? E questi motivi sono separabili, distinguibili dall’immagine negativa che ha prevalso al termine del suo percorso? In altri termini: che nesso c’è tra la modernizzazione, le opere pubbliche, l’integrazione comunitaria, l’idealismo di massa, la tutela sociale, lo Stato efficace da una parte e dall’altra la violenza squadrista, la persecuzione del dissenso, la militarizzazione e il bellicismo, la volontà di potenza, la retorica e l’autoritarismo, fino alle leggi razziali, all’antisemitismo e all’orrore della Shoah? C’è un nesso indistruttibile tra queste cose, o si può pensare alle une senza le altre, e viceversa?
Io credo, - ma poi ce lo dirà lui, se vorrà - che proprio in nome di quei principi che ho appena ricordato - e non d’altro - Rodolfo Graziadei abbia speso gli anni migliori della sua giovinezza.
E d’altra parte sappiamo bene che la guerra civile tra antifascisti e fascisti non fu, se non in minima parte, la guerra tra difensori della libertà e sostenitori della dittatura. Le forze più cospicue della Resistenza furono i comunisti e gli azionisti di Giustizia e Libertà, non certo i partigiani cattolici, monarchici e liberali, che pure vi furono e combatterono il nazi-fascismo nel nome della libertà e della democrazia. La stragrande maggioranza dei comunisti combatteva invece nel nome di Marx, Lenin e Stalin, in vista della dittatura del proletariato e riteneva legittimo l’uso della violenza rivoluzionaria. Ma anche tra gli azionisti dominava l’idea di un “nuova dittatura rivoluzionaria”, come la chiamava Silvio Trentin, di un nuovo pedagogismo di stato per educare le masse, come sostenevano i loro programmi, di una democrazia senza partiti, come la disegnava Duccio Garimberti, e di un anticapitalismo radicale, come quello disegnato da La Malfa e Ragghianti, che configuravano una scelta non propriamente omogenea alla democrazia liberale.
E il fatto che il mondo sia più complicato di come una storiografia agiografica, compiacente e di parte ce lo ha sempre presentato, emerge in modo chiaro ed evidente dal libro che oggi qui presentiamo.
Si legge la ribellione morale dello stesso Rodolfo di fronte ad episodi di ingiustificata ferocia perpetrati da una parte come dall’altra, a cui assiste attonito e spesso impotente. Si coglie nel profondo il suo disorientamento di fronte alla consapevolezza di dover combattere contro altri italiani e non – come avrebbe voluto – contro le truppe degli “invasori” anglo-americani.
Gli sguardi fugaci che scambia con un giovane prigioniero partigiano della sua età, in cui scorge l’angoscia e l’incertezza sulla sua sorte; o con il soldato britannico biondo che lo scorta verso la prigionia allontanando da lui, per una sorta di inconfessato rispetto, la plebaglia che fino a pochi giorni prima plaudiva a quelli come lui e che ora, pronta a saltare sul carro del vincitore, gli vorrebbe sputare in faccia, accecata dall’odio e dal rancore. I tanti piccoli e grandi episodi di autentico cameratismo, che lo vedono protagonista di un’epopea tragica e grandiosa al tempo stesso, e che ne fanno una figura alta e nobile pur nella sua semplicità.
Tutto questo fa di questo libro un’opera da leggere con grande interesse, nel ricordo di quello che è stato ma anche - e direi, soprattutto – nella speranza di un futuro migliore. Ed è proprio con lo sguardo rivolto al futuro che Rodolfo chiude il suo racconto, scrivendo: “sulla linea dell’orizzonte, il tramonto di una vita non è triste, confortato dalla certezza che quando la bicicletta resterà sul ciglio della strada perché non potrò più tornare a riprenderla, non sarà preda dei rovi ma troverà chi monterà in sella e continuerà a salire fino all’ultimo giorno, ultima ora, ultimo minuto di un’ascesa che culminerà con il riscatto di una fede capace di ridare a quest’Italia la svenduta dignità.”
Vi ringrazio e cedo con piacere la parola a Pino De Rosa.