Malgrado questo merito non gli sia stato riconosciuto dalla cultura ufficiale, Guareschi è senz’altro lo scrittore che meglio di altri seppe, nei tempi non facili nei quali visse e scrisse, cogliere l’anima di questo strano Paese, l’Italia, trasformando gli uomini comuni dei suoi romanzi e dei suoi racconti in figure paradigmatiche. Ci sono voluti anni e tanta ostinazione da parte di appassionati studiosi come Alessandro perché si potessero fare su di lui tesi di laurea e studi accademici. Ma se la critica e il “baronato” progressista e benpensante ancora storce il naso di fronte al suo nome, Guareschi, a cent’anni dalla sua nascita e a quaranta dalla sua morte, è più vivo e presente che mai nel cuore di milioni di lettori e di spettatori.
Riscoprire oggi Guareschi vuol dire riscoprire l’uomo e tutta la sua opera, senza fermarsi necessariamente al semplicismo della versione cinematografica. Dai numerosi racconti del ciclo di Mondo Piccolo (quelli di Peppone e Don Camillo) ai romanzi dell’anteguerra e del dopoguerra, che ci danno la possibilità di coglierere quell’Italia vera, profonda, del Novecento, che non sta nei prodotti letterari e nelle elucubrazioni astratte partorite dai salotti metropolitani, dalle conventicole intellettuali legate agli “ambienti che contano”, che pure fanno mostra di sé nei manuali scolastici, ma è magistralmente descritta nelle storie guareschiane.
Storie autentiche eppure piene di incanto fiabesco, espressione di poesia come di impegno civile, ricche di un umorismo mai surreale, mai venato di cattivo sarcasmo. Storie che – come scrive Paolo Gulisano nel suo libro “Quel cristiano di Guareschi” – “sono espressione di quel riso buono che nasce dalla compassione per ciò che combina l’uomo, nella sua limitatezza e nella sua goffaggine, affannandosi nelle vicende quotidiane, magari finendo per fare del mare agli altri o a se stesso.”
Il pregiudizio che su Guareschi ha gravato per un quarantennio era motivato dal suo essere stato un autore “schierato”, e “schierato” male, agli occhi della cultura dominante. Un reazionario, un seguace del trinomio “Dio, patria e famiglia”. Un concetto però, quest’ultimo, che va bene, riferito a Guareschi, solo se inteso come espressione di virtù umane, civile e religiose, e non viceversa se interpretato nella sua versione idolatra, che trovò allora e che trova ancora oggi terreno fertile nel fondamentalismo, nel nazionalismo, nel razzismo esclusivista, così lontano dal modo di concepire e di vivere l’esistenza proprio di Giovannino.
Dio, patria, famiglia. La dimensione religiosa, l’impegno civile, il valore irrinunciabile degli affetti domestici.
La dimensione religiosa. Leggendo, ad esempio, i racconti di Mondo piccolo, ci si accorge che c’è, al di là delle storie e dei personaggi, un altro protagonista, un Soggetto divino, il Dio misericordioso, padrone degli eventi e del cuore, che Guareschi aveva incontrato nell’esperienza drammatica della sofferenza già nei lager tedeschi dove era stato internato come militare italiano. Quella Divina Provvidenza che continua, nonostante tutto, a governare la storia individuale e sociale in una prospettiva di salvezza e di redenzione e che fa dire a Guareschi, sul Candido del 7 dicembre 1947: “Noi non apparteniamo a nessun ismo. Abbiamo un’idea, sì, ma non finisce in ismo. La cosa è molto semplice: per noi esistono al mondo due idee in lotta: l’idea cristiana e l’idea anticristiana. Noi siamo per l’dea cristiana e siamo perciò con tutti coloro che la perseguono e soltanto fino a quando la perseguono. Quando, a nostro modesto avviso, qualcuno si distacca da questo principio, chiunque sia (fosse anche il nostro parroco) noi diventiamo automaticamente suoi avversari…Alla fine, magari, ci troveremo con sei lettori in tutto”. Perché se un cristiano non è straniero alla mentalità dominante, significa che è servo del potere del momento, di uno dei tanti déi tirannici che opprimono l’uomo, sia esso l’Imperatore o lo Stato o il Partito o la Classe o la Razza o la Scienza o il Progresso o il Denaro.
L’impegno civile. Fu l’impegno che lo portò, fra l’altro, dopo la comune battaglia anticomunista che precedette le prime elezioni libere del dopoguerra, allo scontro con De Gasperi, conseguenza del disamoramento di Giovannino per lo statista, iniziato poco tempo dopo il grande successo del 18 aprile 1948. L’Italia che la Democrazia Cristiana stava forgiando non era quella che lo scrittore si aspettava. La ripresa economica, necessaria e indispensabile, stava provocando come effetto collaterale il sorgere di quei fenomeni che avrebbero messo salde radici nella Prima Repubblica e che sono arrivati amplificati fino ai giorni nostri: affarismo, corruzione, clientelismo, favoritismo. Effetti inevitabili del processo di sviluppo? Guareschi di queste scuse no ne voleva sapere. La sua moralità cristallina non contemplava nel proprio vocabolario la parola “compromesso”: il male è male, punto e basta. Non è lecito rubare, truffare, appropriarsi indebitamente, sfruttare. “Un uomo di difficili costumi”, disse di se stesso. E per questo pagò – come immagino ci spiegherà meglio Alessandro fra un attimo – con il carcere, nel quale scontò, primo giornalista nella storia repubblicana, ben 409 giorni di ingiusta detenzione.
E per finire, il valore irrinunciabile degli affetti domestici. C’è un ulteriore Guareschi, da riscoprire. E’ lo scrittore che più di ogni altro ha rivolto la propria attenzione alla famiglia. Una famiglia che, per Giovannino, è fatta di ruoli, di responsabilità, di amore, di regole, che vengono infrante, riaffermate, superate, riscritte. E’ fatta di litigi, di baruffe, di riconciliazioni, di musi lunghi, di tenerezze, di solidarietà e soprattutto di fedeltà. L’amore tra i genitori, tra questi e i figli, tra i fratelli, è chiassoso, appassionato, volubile, mutevole, ma fedelissimo. Il significato e il valore della famiglia Guareschi lo aveva imparato sul campo, dai propri genitori. Un modello educativo che lo portò a scontrarsi persino con ambienti clericali, che portavano avanti l’immagine edulcorata del cristianesimo delle chitarre elettriche che si diffuse largamente negli anni immediatamente successivi al Concilio; con chi sviluppava il concetto di pluralità di modelli familiari intesi come semplici aggregati di cittadini che si autodeterminano secondo criteri squisitamente contrattualistici; che lo portò a scrivere pagine importanti contro le ipotesi eugenetiche ed eutanasiche che già allora facevano capolino, e contro le quali Guareschi scrisse pagine intense di un’attualità veramente sconcertante.
Questo, in pillole, il Guareschi che anch’io, come tanti, ho imparato ad amare. Negli ultimi mesi della sua vita, di fronte al desolante spettacolo offerto dalla società italiana dell’epoca, scriveva, con una diagnosi acuta che sa di profezia: “Ogni giorno di più mi accorgo come sia vana, inutile cosa lottare da galantuomini contro la canaglia organizzata. Purtroppo questi sono i giorni dei falliti, degli uomini senza idee; è l’era dei demagoghi, dei politicanti, degli ipocriti che, nel nome della giustizia sociale, stanno perpetrando la più orrenda ingiustizia: spersonalizzare l’individuo, ucciderlo per creare quel “cretino medio” alla cui mentalità la radio, la televisione e l’altra propaganda governativa vanno ogni giorno adeguando i programmi”.
Una tristezza però, che non fu mai disgiunta dalla speranza che lo accompagnò fino all’ultimo giorno e che mi sento di poter sintetizzare con quella bella frase che compare nel finale di un film del ’63, La rabbia, che Guareschi contribuì a realizzare: “Una fiamma scalda ancora il nostro vecchio cuore di terrestri. E in noi è ancora più forte la speranza che la paura. Grazie a Dio”.